mercoledì 9 giugno 2010

- Un enigmatico ragù -



Capitolo 1

Avevo sempre visto quella trattoria si trovava nell'angolo, tra due vie; era un posto storico, penso che quella casa avesse all'incirca duecento anni: un pezzo di storia della buona tavola di quel paesello in collina. Quando passavo di lì con il mio furgoncino era inspiegabilmente sempre l'ora di pranzo e, anche se ero solo, non riusciva a tirare dritto così, senza pensarci troppo, svoltavo a destra ed entravo nel cortile della trattoria. Si chiamava "La Campagnola" proprio perché si trovava fuori dalla città, fuori da quel caotico mondo di auto che sfrecciano ad alta velocità; i piatti che la cucina offriva avevano i tipici sapori di campagna, tutto genuino e apprezzabile da chiunque. Era gestita da una coppia sulla quarantina, Sonia ed Eugenio, e dalla mamma di lui, Agnese che avrà avuto non meno di settant'anni. La cuoca era lei, la classica signora anziana che si dedica ai fornelli con passione e dedizione, che ama la buona tavola e i sapori della sua terra. Il figlio si occupava di accogliere i clienti e di portare i piatti in tavola, mentre la moglie collaborava con Agnese ma cercava di rimanere sempre un po' da parte; secondo il mio pensiero, quella trattoria andava avanti grazie ad Agnese e alle sue specialità in cui ricercava l'originalità rispetto ai pasti commerciali degli altri ristoranti. Agnese era sposata con Pietro, morto qualche anno prima; lui si occupava del vino da servire ai suoi clienti e, sebbene non disponesse di un vigneto proprio, eseguiva delle accurate ricerche in modo da offrire il meglio, oltre che nel piatto, anche nel bicchiere. Da quando era morto questo compito era passato al figlio Eugenio che aveva mantenuto le stesse abitudini del padre e si riforniva dalle medesime aziende offrendo, come sempre era avvenuto in passato, dell'ottimo vino rosso e bianco ai suoi ospiti.


Capitolo 2

Entravo in quella trattoria sempre con molto piacere e ogni volta mi sembrava di sentirmi come a casa. Al bancone trovavo sempre Eugenio che, da bravo oste, mi accompagnava al tavolo. A differenza di tutti gli atri ristoranti, alla "Campagnola" non c'era un menù fisso: tutti sapevano già quali erano le specialità della casa e non c'era modo di potersi sbagliare. Entrando, però, sentivo ogni volta un profumo diverso, indice che Agnese stava sperimentando qualcosa di nuovo. Al momento delle ordinazioni niente moderni computer direttamente collegati al bar e alla cucina: Eugenio arrivava al tavolo con la sua calma e, munito di un bloc notes e di una penna, annotava ordinatamente tutto ciò che gli veniva detto. Mi piaceva davvero quell'ambiente e la famigliarità che si respirava nei gesti di coloro che vi lavoravano: sembrava di andare a pranzo dalla nonna e avere gli zii che ti servono in tavola.
La clientela era molto varia: si passava dal gruppetto di muratori che apprezzavano la cucina tradizionale, ai due o tre imprenditori che, con interesse osservavano il colore del vino, alla famigliola che andava lì per festeggiare chissà quale evento e ai solitari che, come me, si facevano fare compagnia dal buon cibo.


Capitolo 3

Agnese era il motore di quella trattoria, senza di lei penso che il figlio e la moglie avrebbero chiuso. Una delle grandi specialità dell'anziana signora era la pasta con il ragù, unica alla mia bocca ma anche a quella di tutti gli altri clienti. La pasta veniva obbligatoriamente fatta a mano e il ragù veniva preparato quotidianamente da Agnese che lo arricchiva con aromi, spezie e quant'altro. I piatti che la trattoria offriva erano tradizionali e, oltre al famoso ragù di carne, veniva preparata anche dell'ottima carne alla griglia proveniente dal macellaio di famiglia che gestiva il suo negozio poco lontano dal locale. Quando entravo in quella trattoria non riuscivo a fare a meno di ordinare un piatto di pasta al ragù, magari anche una mezza porzione, perché non potevo uscire senza essermi gustato quella specialità che solo Agnese sapeva preparare; mi lasciava un gusto particolare in bocca e, sebbene si trattasse di qualcosa di molto pesante e calorico, dopo averlo mangiato mi sentivo leggero come prima poiché gli ingredienti usati da Agnese erano genuini e facilmente digeribili. Amavo la cucina della signora Agnese e avrei pagato oro per poter avere sempre a mia disposizione una cuoca così, in modo da non dovermi accontentare di un panino a pranzo oppure di un piatto di linguine allo scoglio surgelate alla sera.


Capitolo 4

In questo cornice deliziosa fatta di sapori e collaborazione in famiglia c'era però un lato oscuro che tutti cercavano quanto meno di dimenticare: la malattia di Agnese; la donna, infatti, era da tempo malata ma, dietro ai fornelli e agli occhi dei suoi affezionati clienti, nascondeva tutto. La sera si coricava a letto molto presto, giusto il tempo di terminare le ultime portate per i clienti più ritardatari. Come un fantasma abbandonava la cucina e saliva al piano superiore dove viveva in un appartamento molto grande che ricopriva l'intera superficie della trattoria sottostante; Agnese se ne andava, lasciando Eugenio e Sonia a terminare gli ultimi lavori di fine serata.
I mesi passavano in un'apparente normalità finché, nell'inverno di due anni fa, Agnese cominciò a stare davvero male fino a quando, non riuscendo più a trattenere il dolore, fu costretta a rimanere a letto e, da donna abituata al lavoro, questo peggiorò ulteriormente la situazione: nel giro di pochi giorni Agnese morì spegnendosi come un fuocherello colpito dal vento; la trattoria rimase chiusa per lutto per una settimana e i clienti, passando di lì e leggendo l'annuncio di morte della povera Agnese, si rattristavano e, in silenzio, rivolgevano un pensiero a quella donna sempre sorridente e fantastica, sia dal punto di vista umano sia da quello delle sue capacità in cucina.
Il lunedì dopo il funerale la trattoria rialzò le saracinesche e, con molta tristezza, Eugenio e Sonia ricominciarono ad accogliere i loro clienti. Tutti affrontavano la soglia del locale in punta di piedi e, mentre entravano, gettavano lo sguardo verso la foto di Agnese che era stata posta sopra il banco. Dopo pochi giorni dalla riapertura sorse un problema piuttosto rilevante: i piatti non avevano più lo stesso sapore di quando ai fornelli c'era la povera Agnese; Sonia aveva preso il suo posto ma, evidentemente, non aveva le stesse capacità della defunta suocera. I clienti di lì a poco cominciarono a lamentarsi: quello che proprio era cambiato era il ragù di carne, il piatto forte di Agnese; i clienti sceglievano "La Campagnola" anche a costo di fare parecchi chilometri pur di gustare il favoloso ragù ed era inaccettabile da parte loro dover fare a meno del suo sapore originale, quello a cui erano abituati da moltissimi anni.


Capitolo 5

Eugenio e Sonia cominciarono a cercare ovunque la ricetta del ragù: tra i numerosi libri di cucina, nei mobili e nei cassetti di Agnese e tra le sue riviste; era ormai chiaro che la donna non aveva scritto da nessuna parte i magici componenti del suo ragù: non esisteva una lista di ingredienti che usava regolarmente poiché ogni volta ne aggiungeva alcuni e ne toglieva altri e, questo mix formidabile, rendeva il suo ragù favoloso. Non esisteva nemmeno un appunto né una nota, nulla. Sembrava quasi che la donna volesse tenere quella ricetta segreta e che quel ragù sarebbe dovuto morire insieme a lei, nello stesso modo in cui, insieme a lei, era nato moltissimi anni prima quando cominciò a destreggiarsi tra i fornelli e a preparare le sue prime specialità.
La situazione stava diventando seriamente a preoccupante poiché le lamentele dei clienti erano continue e ripetute: in giro di poco la trattoria sarebbe rimasta vuota ed era senza dubbio necessario trovare una soluzione a quel problema. Sonia era disperata: ai fornelli non riusciva proprio a darne fuori come invece sapeva ben fare la suocera e per lei era ogni volta un duro colpo assistere alle lamentele dei clienti. Eugenio, purtroppo, non aveva mai seguito la madre nella preparazione del suo ragù e aveva le idee completamente confuse in merito alla preparazione di quella delizia. Era una situazione davvero difficile e complicata, apparentemente senza una possibile soluzione.


Capitolo 6

Ormai presi da una quasi totale disperazione, Eugenio e Sonia decisero di chiedere aiuto ai loro clienti, gli stessi che un tempo li avevano riempiti di complimenti e che invece, ora, li stavano mano a mano voltando le spalle. Indissero come una specie di "concorso della memoria" in cui tutti i loro clienti avrebbero potuto aiutarli in modo da cercare di ricomporre la tanto ricercata lista di mitici ingredienti necessari per preparare il ragù di nonna Agnese, così affettuosamente chiamato dopo la morte della donna. I clienti si entusiasmarono e cominciarono a dare il loro contributo: macinato di carne, salvia, carote, peperoncino, olio, cipolla, pomodoro, ginepro...; ognuno diceva la sua, c'era chi aggiungeva un ingrediente e chi ne toglieva a priori un altro. Era diventata quasi come una corsa per chi ricostruiva più in fretta la ricetta di nonna Agnese. Se solo Agnese avesse scritto da qualche parte qualche appunto, un promemoria, una lista della spesa per la preparazione del suo ragù non ci sarebbero stati così tanti problemi e tutto sarebbe stato molto più facile. Forse l'originalità e la bontà di questo ragù stava anche nel mistero degli ingredienti che lo componevano, quasi fosse una pozione magica scritta in chissà quale libro di fantasia.


Capitolo 7

Fu così che Eugenio e Sonia organizzarono una serata in cui avrebbero provato tutte le ricette elaborate dai loro clienti; al mattino andarono dal macellaio e acquistarono una notevole quantità di macinato di carne e anche al mercato per comprare le più svariate verdure consigliate dai loro clienti. Tornarono a casa soddisfatti e attesero con ansia l'arrivo delle ore 20 in cui sarebbero arrivati tutti i loro "collaboratori". Piano piano il cortile cominciò a riempirsi di auto, biciclette e moto: uomini e donne provenienti da vari punti della città erano lì per tentare di ricostruire la ricetta del ragù, ormai considerato un patrimonio della cucina. Uno per volta andavano in cucina, ognuno con la sua idea e la sua lista di ingredienti: mentre Sonia era ai fornelli e seguiva alla lettera tutto ciò che le veniva suggerito, Eugenio accoglieva chi arrivava e cercava di mantenere l'ordine tra quella moltitudine di persone. Ovviamente doveva esserci un giudice anzi, più giudici, che dovevano decretare qual era la ricetta che più si avvicinava a quella di Agnese; una giuria esperta, formata da cinque, tra uomini e donne, clienti storici del locale.

Capitolo 8

Erano ormai le 23 quando, a gran voce, i giudici proclamarono unanimi a gran voce il loro verdetto: la ricetta giusta era quella elaborata da Ornella, vecchia amica di Agnese. Eugenio e Sonia furono più felici che mai, stapparono una bottiglia del loro miglior vino e omaggiarono Ornella con un mazzo di fiori; il ritrovamento della pregiata ricetta era per loro come una manna dal cielo: questo avrebbe comportato al recupero di tutta la clientela che nelle settimane precedenti avevano perso. Finalmente la ricetta era stata recuperata e l'antico sapore dell'originale ragù di Agnese era nuovamente a disposizione di chiunque avesse avuto voglia di deliziarsi con un piatto di bigoli, gnocchi o fettuccine."La Campagnola" ricominciò la sua attività raggiungendo risultati davvero lusinghieri: qualcosa come una cinquantina di pasti a pranzo e a cena, proprio come quando al timone della cucina c'era Agnese. Eugenio e soprattutto Sonia erano davvero fieri del lavoro svolto dai loro clienti ed erano orgogliosi di poter proseguire l'attività che Agnese aveva svolto per molti anni. Dopo l'esperienza vissuta, Eugenio e Sonia procedettero con la stesura della lista di tutti gli ingredienti necessari per preparare il ragù, la incorniciarono e la misero in bella mostra nella sala della trattoria. Ora, chiunque entra alla "Campagnola" può conoscere tutti gli ingredienti di cui è fatto quel ragù di cui tanto si era parlato in precedenza.

Ideato da: Marco Gasparotto
Scritto da: Alessia Zaroccolo
Pubblicato da: Bregalda Alessandro

lunedì 7 giugno 2010

- Per un amico -



Capitolo 1

Eravamo partiti in 22 e tornavamo in 8 da quella stramaledettissima missione e da quella fottuta trincea del cavolo che puzzava di qualcosa che si avvicinava molto all’odore di carne umana: non ci lavavamo da giorni. Posammo lo zaino e il thomson a terra, stremati. Chiesi dell’acqua e lavandomi il viso e sorseggiando il resto della borraccia mi guardai intorno, “John… John…” alcuni mi guardarono per un momento poi si voltarono dall’altra parte; solo Anthony che era seduto affianco a me mi fissava e appena incrociai il suo sguardo lui scosse il capo a destra e a sinistra. Non ci credetti subito, mi alzai in piedi e urlai più forte -John- ma ancora nessuna risposta. Sensazioni atroci mi passavano per la mente, orrori nella mia testa, avevo un’accurata percezione della realtà ma la mai mente rifiutava l’idea che John fosse scomparso. Ero ormai troppo abituato alla sua presenza, ero cresciuto insieme a lui: da bambino non uscivo di casa senza di lui, era la mia ombra. Le nostre famiglie si conoscevano da anni e durante l’estate ero sempre a casa sua a pranzo: sua madre era un’ottima cuoca e amava preparaci dei deliziosi pranzetti che insieme gustavamo in terrazzo. In segno della nostra grandissima amicizia ci eravamo regalati un braccialetto colorato che, con il tempo, si era consumato ma tenevo sempre con orgoglio al braccio sinistro insieme a quello d’oro del Battesimo. Un legame profondo fatto di sincerità e di affetto, nato moltissimi anni prima e che ancora durava nonostante fossimo diventati degli uomini e, una nuova tappa della nostra amicizia, fu appunto quella della guerra, un’esperienza difficile al termine della quale saremmo diventati ancora più forti e ciò che era ancora più splendido era che questa crescita sarebbe avvenuta sempre insieme. Davanti a migliaia di ragazzi che partivano tra le lacrime, noi eravamo partiti con il sorriso sulle labbra, ci sentivamo grandi, avevamo voglia di nuove avventure, il dolore non ci faceva paura perché eravamo insieme. Lo cercai nervosamente tra i pochissimi rimasti ma, dopo alcuni minuti, mi accorsi con grandissimo dispiacere che non era presente; fu proprio in quel momento che il mio cuore si frantumò in mille pezzi, come un piatto di porcellana che raggiunge il suolo, non riuscivo ad immaginare che John potesse essere morto e non potevo nemmeno accettare di averlo abbandonato nel campo di battaglia.

Capitolo 2

Abbandonai di colpo lo zaino e il thomson e corsi alla ricerca del capitano per dirgli che avevamo perso John; lo dovetti cercare a lungo prima di trovarlo, sembrava essersi volatilizzato. Quando lo trovai gli corsi davanti e mi fermai a dieci centimetri da lui. Seguì qualche secondo di silenzio mentre ci respiravamo in faccia lui mi squadrò da cima a fondo; il silenzio si ruppe quando si chinò per prendere la borraccia: credevo volesse fare qualcosa, ogni suo gesto mi appariva decisivo per quello che volevo fare, per il permesso che volevo ottenere da lui. -Capitano- dissi a gran voce -John non è con noi- lui non mi rispose, soltanto mi fissò negli occhi per alcuni istanti poi riabbassò lo sguardo. Io gli diedi una spinta sulla spalla e gli richiesi: -Eh beh che vuole fare?- replicò lui. -E che cosa vuoi che faccia? Non possiamo tornare indietro a riprendere chiunque si perda…- .
Me ne tornai a sedere. Stetti lì fermo come un cane impaurito seduto sul fango e qualcosa mi si muoveva dentro. Mi sentivo in dovere verso John, non potevo non andare a cercarlo, dovevo rendergli giudizio, se era morto aveva diritto a una sepoltura degna, un luogo un cui fosse stato possibile pregare per lui e riporre dei fiori. La sua famiglia aveva già perso l’altro figlio, era morto a soli dieci anni per una malattia rara che i medici avevano dato per incurabile; la madre e il padre di John andavano al cimitero tutti i giorni, tutte le mattine, come in un pellegrinaggio, partivano a piedi per andare al camposanto che si trovava sulla sommità di una collina: poche tombe, i pochi fiori erano tutti appassiti, secchi e venivano sostituiti sono in prossimità delle grandi feste giusto per fare bella figura con i parenti che sarebbero venuti da lontano. L’unica tomba che aveva sempre, inverno e estate, i fiori sempre freschi era quella di Peter, con quella foto in bianco e nero di un angelo scomparso ancora prima di prendere il volo; John, prima di partire per la guerra, accompagnava sempre i suoi genitori a far visita a suo fratello e, anche lui ancora sconvolto dal dolore come i genitori, aveva dichiarato di voler riposare vicino a suo fratello quando sarebbe arrivata la sua ora perché, così diceva, quel rapporto aveva bisogno di continuare per l’eternità.

Capitolo 3

A un certo punto ripresi coraggio, mi rialzai e tornai dal comandante; mi misi sull’attenti di fronte a lui e gridai: “Chiedo il permesso di andare a recuperare il soldato John Marquand”. “Permesso negato” replicò il comandante.
Avevo cercato in tutti i modi di convincere il comandante, gli avevo raccontato delle promesse che prima di partire io e il mio amico ci eravamo fatti, avevo anche cercato di far capire a quel cuore di ghiaccio quale fosse il rapporto tra me e John, dell'infanzia trascorsa insieme e anche della sua situazione famigliare. Il comandante mi ascoltava, stava fermo come un palo della luce che rimane indifferente al sole, alla pioggia, alla neve e al vento; quell'uomo sembrava davvero non voler capire le mie ragioni e, quasi per farmi notare la sua assoluta superiorità alla fine di tutti i miei discorsi mi rispose con un “NO” secco che però non mi fece cadere nello sconforto e nemmeno fece svanire tutta la forze che sentivo dentro che mi guidava verso John.

Capitolo 4

John disobbedisce al comandante e parte per andare a riprendere il suo amico.
E fu dal No del comandante che decisi di partire, alla ricerca del mio grande amico John. Non sapevo dove l'avrei trovato, non ne avevo la più pallida idea, non mi ero nemmeno accorto quando era stato colpito e aveva smesso di seguirci. Mi misi il fucile in spalla come anche quel vecchio zaino con dentro quel poco cibo che mi era rimasto: ero stanco, sfinito, gli occhi mi bruciavano e l'unica cosa che mi avrebbe risollevato sarebbe stata ritrovare John vivo. Camminai a lungo, ripercorsi gli stessi luoghi che poco prima mi avevano riportato a casa, mi guardavo intorno ma il mio raggio di veduta era abbastanza corto perché ero davvero stremato. Colline, qualche tratto in pianura, sassi, acqua, avevo freddo e caldo insieme, penso di avere avuto anche la febbre ma niente mi avrebbe potuto fermare. Ero sicuro di trovare John, ero sicuro di poterlo rivedere vivo, di potergli parlare, di poter tornare a casa con lui e di ricominciare una nuova vita dopo quella tremenda e terrificante guerra. Ogni tanto inciampavo e cadevo a terra, le mie ginocchia erano piene di botte viola che si mescolavano alla terra che rimaneva attaccata con il sudore alla mia pelle; in alcuni momenti mi mancava pure il respiro, ero costretto a fermarmi, sedermi a terra per qualche secondo per poter riprendere fiato e continuare a camminare. Tra una caduta e un respiro mancato continuavo incessantemente a gridare il suo nome: JOHN, JOHN, JOHN.... e ogni tanto si produceva pure un eco che moltiplicava all'infinito quel nome. Ad un certo punto vidi un casolare, dietro una collina e, dopo una prima occhiata mi sembrava avere qualcosa di famigliare; camminai ancora u po', incuriosito finché non arrivai a pochi metri da quello luogo abbandonato: era proprio lo stesso posto in cui qualche settimana prima ci eravamo fermati a dormire durante la notte e dove avevamo trovato riparo dagli spari nemici. Entrai stremato e mi sedetti a terra; da dietro un muro sentii una voce che mi chiedeva aiuto. Mi alzai di colpo e riconobbi all'istante quella voce: era John! Lo raggiunsi subito: era ferito, stava male e immediatamente mi resi conto che le sue condizioni erano davvero gravi. Me lo caricai in spalla e riprendemmo insieme la casa del ritorno. John era davvero a pezzi, era stato ferito alla gamba destra e aveva perso molto sangue; aveva fame, sete e, come me, non ne poteva più della guerra. John sapeva che non ce l'avrebbe fatta a sopravvivere ma io, testardo come sempre, ne ero sicuro e lo volevo portare in vita davanti al comandante, come un atleta con il suo trofeo dopo una gara.

Capitolo 5

Cominciavo anch'io a sentire i segni della stanchezza, le gambe facevano veramente fatica a tenermi in piedi ma continuavo a camminare facendo finta di non sentire niente; ad un certo punto arrivò uno sparo, un proiettile si conficcò nel mio braccio sinistro e, di colpo, mi accasciai a terra dal dolore. In quel momento, anche se per poco, pensai che non ce l'avremmo fatta ma, come avevo fatto io prima, John mi diede la forza di continuare; per fermare il sangue mi legò uno straccio molto stretto al braccio. Continuavamo a camminare, non sentivo più le gambe che andavano avanti da solo. Il cielo era grigio e nubi nere si alzavano dalla terra infuocata, fuoco rosso come il sangue che sgorgava dalla gamba di John, ma camminavamo e camminavamo senza fermarci. Ma ad un certo punto, proprio mentre le energie gonfiavano il cuore di fatica ecco la salvezza. Il nostro limite per portarci entrambi in salvo. Mancavano circa 200 metri. Vedemmo qualcuno venirci in contro era dei nostri la divisa era sicuramente la nostra, ma ad un centinaio di metri si fermo e immobile prese la mira. Il primo colpo schivò John di qualche centimetro, tentammo di correre più veloci ma di nuovo per la seconda volta, bam; questo centro John nel petto sulla destra. Mi gettai a terra insieme a lui e urlai: Alzati John, alzati, andiamo manca pochis… Un terzo proiettile mi si conficco nella coscia sinistra e mi strappo dai polmoni il poco fiato che mi rimaneva. Eravamo distesi in posizione prono e girando la testaverso John gli dissi:”il comandante non mi ha concesso il permesso di venirti a salvare, ma io ho disobbedito e sono venuto comunque…” e lui rispose. “il comandante eh? Ecco chi mi ha sparato. Il comandante è un infiltrato.

Il team di "Con un po' d'inchiostro"

domenica 30 maggio 2010

Anticipazioni ultimo racconto e chiarimenti



Salve a tutti! Siamo ancora impegnati con il quinto racconto che verrà pubblicato presunibilmente questa settimana. La ragione dei pochi post e dei ritardi è sempre quella quindi è inutile che ve lo spieghi. Oltre al quinto racconto, stiamo lavorando all'ultima storia riguardante una ricetta qualunque. Allora tenetevi aggiornati e speriamo che possiate finalmente leggere il quinto racconto a breve. A presto!

mercoledì 19 maggio 2010

Ancora ritardi


Buon giorno visitatori! Purtroppo, per ragioni tempistiche riguaradanti la valanga di verifiche di questo mese, abbiamo ancora ritardato la pubblicazione del quinto capitolo anche se l'abbiamo quasi finito. Per quanto riguarda il sesto e ultimo racconto, verrà pubblicato verso la fine dell'anno (EVVIVA!). Quindi, a presto e restati aggiornati per eventuali nuove notizie.

mercoledì 12 maggio 2010

Scuse e news



Buon giorno visitatori del blog! Data la marea di verifiche e interrogazioni che ci sommergono in questo Maggio, abbiamo allungato un po' i tempi di consegna e di pubblicazione del quinto racconto. Siamo quindi dispiaciuti e facciamo le nostre scuse agli abituali visitatori. Il racconto però, sarà pubblicato a breve (dateci ancora 3 giorni). Nel frattempo, siamo giunti a conoscenza della nuova traccia del nuovo racconto la quale avrà come tema centrale una ricetta. Per quanto riguarda il progetto del bar a Londra dovrete aspettare ancora, dato che i nostri progetti sono in mano al professore d'inglese. Allora a presto!

domenica 2 maggio 2010

Ci siamo quasi!



Mancano oramai pochi giorni alla pubblicazione del nuovo racconto che, ricordiamo, sarà incentrato su un tradimento militare. Per l'occasione abbiamo migliorato lo sfondo del blog e abbiamo anche inserito un gadget un po' inutile ma comunque simpatico (lo trovi sotto la parte dedicata ai sostenitori). Quindi, state aggiornati, noi vi aspettiamo il 10 Maggio per il quinto e penultimo racconto.

domenica 25 aprile 2010

Ancora novità


Buongiorno visitatori del blog! Stiamo scrivendo il quinto e penultimo racconto che verrà pubblicato verso il 10 Maggio. Siamo orientati a scrivere una storia, inerente alla traccia assegnataci (un tradimento), che parla (per l'appunto) di un tradimento militare nella seconda guerra mondiale. Che ne pensate? Commentate pure!

sabato 17 aprile 2010

Info sul nuovo racconto!



Abbiamo delle nuove notizie per voi!!! Il nostro professore ci ha assegnato una nuova traccia per il nostro quinto racconto, il quale tratterà un tradimento. Il racconto sarà ancora una volta di brevi dimensioni e crediamo che verrà pubblicato entro il 4 maggio. A presto dalla redazione di AAM!

venerdì 9 aprile 2010

- Un sogno fantastico -


Creato da: Gasparotto Marco (creativo);
Scritto e sviluppato da: Zaroccolo Alessia (editor);
Pubblicato da: Bregalda Alessandro (webmaster);

Capitolo 1

La giornata era trascorsa in modo molto nervoso ma, nello stesso tempo, anche velocemente così, senza quasi rendermene conto, mi ritrovai in camera mia disteso sul mio letto; ero stanco ma avevo gli occhi spalancati e fissavo ogni angolo della mia stanza e, improvvisamente, mi avvolsero una valanga di ricordi dei mesi prima: la mia ragazza che mi aveva lasciato senza una spiegazione, il lavoro che mi alternava giorni fitti di impegni ad altri in cui mi ritrovavo in ufficio a non fare niente, a parlare con il mio collega per ore e a bere anche una decina di caffè per rimanere sveglio, poi c’era anche la famiglia, sempre se di famiglia potevo parlare, con due genitori che vivevano a trenta chilometri di distanza l’uno dall’altro: si erano divisi quando ero poco più che un bambino e quello che ricordo di loro due insieme è qualche pranzo alla domenica a casa della nonna e tante litigate, veramente troppe, che si conclusero con una separazione che mi stravolse l’adolescenza; ero stato affidato a mia madre ma, a causa dei numerosi uomini che quasi mensilmente si portava a casa, avevo deciso di andarmene non appena ebbi compiuto diciotto anni. Mio padre, invece, si era ritirato in una tenuta in campagna dove viveva con una nuova donna di vent’anni più giovane di lui che, ovviamente, mirava soltanto al suo patrimonio; ogni tanto li chiamavo, non perché ne sentissi il bisogno, ma solo per ricordali che avevano un figlio anche se, dai pochi minuti che trascorrevo con loro al telefono, le conclusioni erano piuttosto deludenti: sembravano veramente non voler capire i miei stati d’animo, i miei giorni più tristi e le incertezze tipiche di un ragazzo di venticinque anni che, dopo l’università si trova catapultato in un mondo completamente nuovo come quello del lavoro.
Quella sera mi addormentai pensando a Martina, la mia ragazza: ci eravamo conosciuti quando avevamo quattordici anni durante il corso per il patentino del motorino e, per me, fu amore a prima vista: le chiesi il numero e cominciammo a frequentarci. Dopo circa un mese ci fu il primo bacio e ci fidanzammo: fu l’inizio di un periodo stupendo della mia vita, una rinascita dopo la separazione dei miei, quella ragazza mi aveva reso una persona migliore. La nostra storia durò molto: c’erano stati dei tira e molla come in tutte le coppie, periodi in cui ci lasciavamo per poi riprenderci e fu così fino a cinque mesi fa quando lei mi mollò lì senza nessuna spiegazione perché, di fatto, non esisteva un motivo valido per mettere la parola fine a una favola stupenda che mi aveva fatto sognare per moltissimo tempo e, allo stesso tempo, mi aveva fatto crescere come persona. Io avevo deciso di rimanere da solo nonostante molte ragazze mi chiedessero di uscire: avevo mantenuto quella cerchia di amici con cui ero cresciuto e con cui uscivo anche quando ero con Martina. Per fortuna avevo ancora la mia migliore amica Paola che cercava tutti i giorni di tirarmi su il morale, di stapparmi un sorriso e di farmi dimenticare Martina. La fine della nostra storia mi stravolse, ma ciò che mi fece soffrire di più fu la velocità con cui Martina si fidanzò con un altro ragazzo: non passò neanche un mese ed era già tra le braccia di Riccardo, il classico tipo che abita in centro, di famiglia benestante, lavoro sicuro e che si poteva tranquillamente permettere di cambiare una ragazza al mese, lo stesso tipo che proprio Martina aveva definito come un ragazzo di poco conto qualche tempo prima.
La loro storia continuava e io invidiavo in un modo assurdo Riccardo perché aveva al suo fianco la mia ex ragazza fantastica di cui ero ancora follemente innamorato e questo mi tormentava giorno e notte: non riuscivo ad accettare di aver perso Martina.

Capitolo 2

Il sonno mi prese e, poco dopo aver chiuso gli occhi, mi ritrovai catapultato in un altro mondo. Io amavo particolarmente ciò che mi succedeva di notte: le mie emozioni si addensavano in un modo davvero particolare, i baci che avrei voluto dare a Martina volavano verso l’infinito, in me usciva la forza di non dire che avevo ancora bisogno di lei, il mondo mi sembrava giusto perché tutti in quel momento stavano dormendo e, soprattutto, di notte il verbo amare mi appariva come un tempo al passato. Così, proprio di notte, cominciai a sognare Martina perché in quei giorni avevo pensato troppo a lei: era stupendo, mi ritrovavo in una realtà dove ero Riccardo. Mi riconoscevo in lui, frequentavo i suoi stessi posti, abitavo nella sua stessa casa e soprattutto la mia ragazza era Martina. Trascorsi una notte fantastica: sentirmi di nuovo il ragazzo di Martina era qualcosa di unico, una sensazione che non provavo da tanto. Mi risvegliai soddisfatto, con il sorriso nelle labbra, ed ero pienamente convinto di essere nella medesima realtà in cui ero cinque mesi prima quando ero ancora il ragazzo di Martina. Appena alzai la testa dal cuscino mi guardai intorno stranito, accesi la luce e andai in bagno per lavarmi il viso; mi vidi riflesso nello specchio e feci un sorriso accattivante, come farebbe una persona piena di sé. Tornai in camera e cominciai a vestirmi: dall’armadio estrassi una camicia bianca perfettamente stirata, me la misi e me l’abbottonai ordinatamente poi, dal cassetto, presi un maglioncino blu e me lo infilai come, subito dopo, un paio di jeans blu scuro. Accesi il cellulare e il primo pensiero fu quello di scrivere a Martina, la mia ragazza; in pochi secondi selezionai il menù, poi messaggi, quindi nuovo messaggio e rapidamente scrissi: e lo inviai a quel numero che sapevo a memoria. A pensarci adesso mi sembra davvero assurdo: io che, da quando ci eravamo lasciati, non le avevo più scritto nessun messaggio ed ero intimorito solo al fatto di vedere il suo numero nella rubrica ora, con molta tranquillità, le stavo scrivendo un messaggio chiamandola addirittura “amore”. La risposta di Martina arrivò dopo una manciata di minuti: una normale conversazione tra due venticinquenni innamorati che stanno insieme da tantissimo tempo. Quella mattina mi sentivo raggiante, mi ero svegliato come una persona nuova, ero diventato Riccardo, la persona che per molti, giorni, settimane e mesi avevo invidiato e, senza dubbio, la cosa più bella era che tutto questo meraviglioso cambiamento non mi era costato nessuna fatica, nessun litigio: solo una notte, un sogno e una metamorfosi incredibile.


Capitolo 3

Come tutte le mattine, scesi in garage e presi la mia Mini Cooper rossa e partii verso la caffetteria dove facevo tappa ogni mattina prima di andare in ufficio. Entrai e la ragazza dietro il bancone che aveva fatto il mio stesso liceo mi salutò:
- Ciao Riccardo! Va bene il solito anche questa mattina? - mi chiese.
- Sì certo Manuela - le risposi gentilmente.
Mi presentò un cappuccino con un cornetto alla marmellata ancora caldo che mangiai molto volentieri. Dopo pochi minuti pagai il conto e uscii dal bar per recarmi al lavoro: erano già le 8:20 e dopo dieci minuti dovevo cominciare. Ripensandoci mi sembra davvero incredibile perché tutti mi riconoscevano come Riccardo e non come Marco, quello di sempre: prima con le risposte di Martina al cellulare, poi al bar con Manuela, dopo ancora al lavoro con i miei colleghi. Infatti, entrai in ufficio, appoggiai il mio cappotto in una sedia e subito da dietro mi salutò Daniele, il mio grande amico di sempre:
- Ciao Ricky, ti vedo bene questa mattina, novità? – mi chiese con tono amichevole.
- No, tutto come al solito. Sono contento perché finalmente è arrivato il Venerdì e domani vado a sciare con Martina – risposi.
- Beato te! Io questo fine settimana devo rimanere a casa per finire del lavoro arretrato da tempo -.
Comincia subito il mio lavoro al computer: quel progetto mi teneva occupato da parecchie settimane ormai. Quella mattina la mia mente iniziò ad organizzare il tempo che avrei passato insieme alla mia ragazza, le sorprese che le avrei fatto, l’anello per l’anniversario, la cena, l’hotel, il candore della neve: tutti i miei pensieri erano avvolti dolcemente da quella ragazza occhi cielo di cui mi ero innamorato quando ero adolescente. Di tanto in tanto i miei colleghi mi venivano da dietro e mi davano un colpo nella spalla come per svegliarmi perché ero completamente assorto nei miei pensieri e sembravo essere in un altro pianeta. Così, tra mille progetti e idee, tra mille fantasie e altrettanti sogni arrivò la tanto attesa ora di pranzo che oggi sarebbe stata davvero speciale perché al mio fianco ci sarebbe stata Martina che, con il suo sorriso e la sua dolcezza, avrebbe riempito anche quel momento che altrimenti sarebbe stato terribilmente noioso.


Capitolo 4

Spensi il computer cinque minuti prima del solito, mi sistemai il colletto della camicia, presi il mio cappotto e partii alla volta di quella paninoteca del centro che era stata da poco ristrutturata; mi ci volle circa metà del tempo che di solito impiegavo per raggiungere i portici, quindi la porta a vetri: ancora prima di entrare vidi, attraverso delle tende, la mia amata che mi stava aspettando già seduta in un tavolino.
- Ciao, amore! – la salutai io.
- Ciao, cucciolo! – mi rispose lei.
Per un po’ non sapevo più cosa fare e dove guardare: ero completamente perso nei suoi occhi, navigavo incredibilmente in quei due specchi azzurri che riflettevano una luce insolita e radiosa nel mio volto che si colorò come un arcobaleno dopo una breve pioggia estiva. Il tempo trascorse molto velocemente, tra un morso al mio panino e una parola a lei. Con molta complicità ci mettemmo d’accordo per il weekend che avremmo trascorso insieme, proprio nello stesso modo in cui ci saremmo parlati qualche mese prima: inutile da dire, io e Martina eravamo una coppia felice e serena, senza nessun tipo di problema o incomprensione. Pazientemente attesi che Martina terminasse il suo panino vegetale, andai alla cassa e pagai il conto da bravo gentiluomo come mi aveva insegnato mio padre. Uscimmo dalla paninoteca mano nella mano ed ecco che, voltandomi, vidi Marco, l’ex di Martina, che veniva avanti da destra; la scena fu piuttosto imbarazzante: Marco, visibilmente intimidito dalla mia presenza, accennò un ciao mordendoselo tra le labbra che pronunciò abbassando la testa. Neanche il tempo di un come stai che Marco se ne andò, camminando alquanto velocemente: quella situazione gli stava davvero troppo scomoda per rimanere lì un secondo in più del dovuto. Per rispetto della mia ragazza preferii non dire niente in merito all’incontro che avevamo appena fatto, così riprendemmo la nostra passeggiata per il centro; proposi a Martina di fermarci un attimo dai miei genitori che abitavano proprio nel centro storico, in un appartamento al secondo piano di un palazzo dell’Ottocento. Di lì a cinque minuti raggiungemmo il portone e salimmo: mia madre era ai fornelli, mio padre era nel divano e stava leggendo la sua solita rivista mentre mio fratello Francesco era da poco arrivato da scuola. Tutti furono molto contenti di vedere me e Martina così, ci fermammo per poco, giusto il tempo di un caffè e di una breve chiacchierata; salutammo i miei genitori e scendemmo. La pausa pranzo si stava concludendo, così io tornai al mio ufficio mentre Martina si avviò al negozio di abbigliamento dove lavorava come commessa.


Capitolo 5

Il pomeriggio passò in un lampo e così si concluse anche quell’ennesima giornata lavorativa: era arrivato il tempo di partire per la montagna. Verso le 20 passai da Martina, caricai le sue valigie nella mia Mini fiammante e partimmo per la Val Senales, meta che già altre volte avevamo scelto per trascorrere qualche giorno in tranquillità; poco prima delle 23 raggiungemmo il nostro hotel, lo stesso in cui andavo io con i miei genitori e mio fratello quando ero ragazzino. Rapidamente sistemammo i bagagli nella nostra camera e, abbracciati e più innamorati che mai, cominciammo a guardare da una finestra ciò che stava accadendo fuori: la neve cadeva lievemente e ricopriva tutto con il suo manto candido. Stanchi dalla giornata di lavoro e dal viaggio, ci stendemmo a letto e immediatamente ci addormentammo consapevoli della giornata stupenda che ci sarebbe aspettata l’indomani. Eravamo noi, Riccardo e Martina, sempre insieme, dovunque, in qualsiasi condizione ma sempre noi come quando, parecchi anni prima, ci eravamo incontrati all’autoscuola. Sempre e ancora noi, con i nostri sogni, i nostri progetti per il futuro, le nostre speranze e un desiderio comune: quello di stare insieme perché era proprio lo stare insieme che ci faceva stare bene.

Capitolo 6

Stavo così bene che faticavo a credere a tutto ciò; sembrava più un sogno che una fantastica realtà e, purtroppo, era proprio così. Mi risvegliai nel mio letto, ero tutto scoperto e sudavo parecchio, rimasi immobile alcuni minuti non volendo accettare la realtà: Martina era solo un sogno e ancor di più tutto quello che avevo passato insieme a lei. Era solamente un sogno, un sogno fantastico.

mercoledì 7 aprile 2010

A tra poco!


Buongiorno visitatori del blog! Venerdì pubblicheremo il quarto racconto e speriamo vivamente che vi piacerà. Ringraziamo tutti coloro che hanno votato nel sondaggio permettendoci così di migliorare in corsa il nuovo racconto. Quindi, a venerdì!

giovedì 1 aprile 2010

Arrivi e ritardi


Salve a tutti i visitatori del blog! A breve pubblicheremo (finalmente) il quarto racconto che ci ha dato in consegna il nostro professore d'italiano. Per quanto riguarda il progetto d'inglese (chi ancora non lo sapesse è un progetto riguardante la creazione di un bar a Londra), verrà pubblicato il prima possibile anche se temiamo che vedrà la luce in notevole ritardo (problemi con il codice html). Intanto il team di AAM vi augura buona Pasqua e speriamo che il sondaggio venga effettuato da più persone, permettendoci così di migliorare i nostri racconti e il nostro blog. Ancora buona Pasqua da AAM!

venerdì 26 marzo 2010

Works in progress



Stiamo lavorando per il quarto racconto che verrà pubblicato subito dopo Pasqua. La nuova storia seguirà una traccia che ci ha consegnato il nostro professore, la quale parlerà di uno scambio d'identità che coinvolge una persona. Ci scusiamo per il ritardo accorso nello sviluppo del progetto d'inglese che verrà pubblicato a breve. Quindi tenetevi aggiornati e alla prossima!

lunedì 22 marzo 2010

Ringraziamenti



Da quando questo blog è stato creato sono passati circa cinque mesi e abbiamo notato che, oltre ad alcuni visitatori temporanei, vi sono molti visitatori abituali che ringraziamo perché ci forniscono uno stimolo in più per continuare e migliorare il nostro lavoro.
Vogliamo proporre un test a tutti i nostri sostenitori, con il quale potrete esprimere un voto di gradimento sulla qualità del nostro blog e dei racconti; speriamo che rispondiate in molti. Un grazie dalla AAM (Alessia, Alessandro, Marco).

giovedì 18 marzo 2010

- Con umiltà verso il prossimo -



Sviluppato da: Gasparotto Marco;
Revisione a cura di: Zaroccolo Alessia;
Gestione della pubblicazione a cura di: Bregalda Alessandro;

Capitolo 1°



Da qui voglio cominciare a raccontare la mia storia, da questo piccolo paesino della Bolivia a circa 2000m di altitudine sul livello del mare. Mi chiamo Giosuè Cuso e sono un prete missionario. Sono stato consacrato a Padova, una città del Veneto e il mio ruolo di presbitero è cominciato a Vicenza, un’altra cittadina della stessa regione. Ma per raccontarvi questa avventura, voglio così definirla perché per me è veramente tale, è utile tornare indietro fino a un mese fa, affinché capiate meglio l’intero sviluppo della storia. Eravamo rimasti alla mia investitura; a Vicenza ricevetti il mio primo incarico anche se ero solo un semplice subordinato ad un mio collega più anziano. Un giorno ero in consiglio pastorale con tutte quelle persone anziane che non hanno molti impegni e così vengono a fare i bravi alle riunioni per la chiesa quando, mentre stavamo discutendo sul concedere o meno una sala del patronato per una festa dei giovani, si attaccò al campanello qualcuno. Mi alzai, facendo un gran rumore nel silenzio che pervase d’un baleno l’intera stanza dove si stava tenendo la riunione, ed andai ad aprire alla porta. Era il tecnico, chiamato la settimana prima, che era venuto per sostituire il toner della fotocopiatrice. Lo accompagnai nella stanza dove stava la macchina; anche se, in realtà, conosceva molto bene la strada e fui io a seguire lui. Lo conoscevo bene, era un signore sulla quarantina, abitava circa a un chilometro dalla canonica e per qualsiasi consulenza per l’appunto, tecnica, gli facevo squillare il cellulare e dopo alcuni giorni lui arrivava portandomi il pezzo da sostituire facendomi, come sempre, un prezzo senza guadagno. Appena finì di sostituire il toner gli buttai giù una domanda così, tanto per animare l’atmosfera e, sapendo che la nipote si era da pochissimo sposata, la domanda cadde proprio su quella questione. La domanda ve la lascio immaginare anche perché non ricordo di preciso quale fosse; sta di fatto che dopo avermi risposto con una breve conversazione spuntò fuori il fatto del ricevimento. La festa di nozze si era svolta in una villa: con spuntini, alberi in fiore e damigelle tutte in tiro e l’intero servizio era stato offerto dall’OMG (Operazione Mato Grosso). Non sapevo di preciso di cosa si trattasse ma nella fretta sua di dover andare a fare un’altra consegna e nella mia di ritornare seduto in mezzo agli anziani, feci appena in tempo a comprendere che si trattava di un organizzazione a scopo di volontariato verso alcune zone dell’America latina.

mercoledì 17 marzo 2010

Capitolo 2°



Appena terminato il consiglio pastorale andai al computer, lo accesi, avviai internet e digitai tre parole: “operazione mato grosso”; attesi qualche istante e subito dopo mi ritrovai con una schermata piena di OMG di qua, operazioni di là, Mato Grosso nel Brasile, ecc, ecc.. , non essendo molto esperto cliccai sul primo indirizzo web che venne in cima alla schermata, anche qui dovetti attendere alcuni secondi ed ecco: Operazione Mato Grosso, il sito ufficiale; in primo istante non badai nemmeno al titolo ma, guardando appena sotto all’intestazione, si possono vedere alcune immagini scorrere automaticamente una dopo l’altra e, dopo una prima occhiata veloce, le riguardai anche una seconda volta tutte e 10 e ancora un’altra volta. Poi, finalmente, mi decisi a leggere qualcosa per informarmi su questa organizzazione ma vi risparmio tutte le peripezie che affrontai nell’esplorare quel sito seppure molto semplice e intuitivo ma sicuramente molto complicato per me. Lessi l’intera storia di Ugo De Censi e i lavori di volontariato con i quali alcuni benemeriti giovani d’oggi raccolgono i fondi per sostenere questa iniziativa. Trovai poi i cinque punti chiave dell’OMG:

1. I Giovani: un cammino per giovani e ragazzi, vita di gruppo, amicizia, esperienza e avventura per imparare a voler bene a chi è meno fortunato di noi.
2. I Poveri: prestando attenzione agli ultimi c'è sempre qualcuno ancora più povero da accogliere ed aiutare.
3. Il Lavoro: ci si educa alla fatica, a pagare di persona e con il frutto de lavoro si aiutano i poveri.
4. La Capillarità: nel rapporto diretto a tu per tu l'amicizia vera cresce e diventa fedeltà nel tempo.
5. L'Aconfessionalità: credere o non credere non ha importanza per aiutare gli altri. Con una vita buona si ricerca la verità.
 
Fantastici, a mio avviso, non ne ho idea di chi li abbia scritti ma lo ammiro. Spensi il computer e andai a celebrare la messa delle sette.
Il giorno seguente andai al patronato e presi una Pepsi: Basilio ne prese una lattina dal frigo e me la diede. -E’ venuto per i gruppi dei giovanissimi?- Mi chiese lui con tono da finto interessato; non che fosse un menefreghista o un poco di buono però la sua domanda era una di quelle che si fanno per convenzione.
-Si- risposi con un cenno della testa finche sorseggiavo la mia bibita
-Ho sentito che verranno alcuni ragazzi a parlare, mi pare che siano quelli dell’operazione Mato Grosso.
-Sicuro?- domandai io
-Non so, credo di si, perché ho parlato prima con l’animatore ma non so se parlasse di oggi o di una volta prossima-
-Va bene- conclusi io e intanto avevo finito la mia Pepsi.
Salii le scale ed entrai nella saletta dove c’erano i gruppi e salutando tutti mi sedetti li vicino. In effetti c’erano dei ragazzi e un paio di ragazze un po’ più grandi rispetto al resto del gruppo; inizialmente non feci alcuna domanda, mi limitai ad ascoltare perché tutto per me era una scoperta. Neanche farlo apposta avevo trovato ragazzi di circa vent’anni che facevano parte dell’organizzazione di cui fin dal giorno prima ignoravo l’esistenza.

martedì 16 marzo 2010

Capitolo 3°


Wow! Dissi tra me e me: così giovani e con un così grande spirito d’iniziativa, complimenti veramente! Rimasi colpito dalle parole che uscirono dalla bocca di quel ragazzo anzi, di quei ragazzi; perché mentre parlava uno gli altri ogni tanto si intromettevano aggiungendo particolari, osservazioni. Fu un discorso molto illuminante per un ignorante come me sull’argomento. La serata proseguì con alcuni giochi organizzati dagli stessi animatori e terminò con l’andare a prendere da bere tutti insieme. Questa volta presi una birra, ma solo per fare compagnia agli animatori perché personalmente non sono uno che beve molto. Erano le dieci meno un quarto e io me ne tornai a casa. Mi tolsi la giacca, le scarpe, i pantaloni e mi misi il pigiama; disteso sul letto pensai parecchio all’Operazione Mato Grosso: le foto che ci avevano fatto vedere, proiettate sulla parete, penetravano come una lama nell’animo più profondo di ciascuno, ogni persona in quella stanza credo si sia fatta un esame di coscienza mentre osservava quelle bellissime immagini più vere che mai. Nessuna foto mi aveva mai colpito in quel modo. Certo, vi sono spesso molte pubblicità alla televisione e sui giornali dove si vedono foto di bambini poveri, gente ammalata che soffre, ma sembrano comunque molto distanti dalla nostra realtà, non ci influenzano e, più tempo passa, più tali immagini diventano ricorrenti e banali; quella ventina di foto le avevo ancora davanti agli occhi. Altrettanto significative furono le parole con cui il ragazzo presentava ogni foto. Chi partiva per quelle missioni, non erano solo vecchi preti e coppie in cerca di una strampalata luna di miele ma anche giovani ragazzi dall’animo nobile che hanno messo da parte tutto il loro mondo tecnologico e moderno per dedicarsi ad altri esseri umani che si trovano ad affrontare una realtà ben diversa dalla nostra ma, potrà per noi sembrare assurda, più genuina, naturale, sana e per loro più bella. Vivere in case di pochissimi metri quadri senza sedie  su cui sedersi, senza letti su cui dormire, ma un solo telo disteso a terra con qualche panno a fare da cuscino. Insomma, per noi sarebbe probabilmente impossibile abbandonare tutto e trasferirci in mezzo a loro però vi sono alcuni ragazzi per l’appunto di questa fondazione che per periodi di sei mesi si partono per andare in una della tante missioni sparse fra Brasile (12), Perù (oltre 40), Ecuador (17) e Bolivia (9). Qui arrivati come personale dell’OMG aiutano i responsabili principali della missione che è presente in tale luogo con svariati compiti.

 

lunedì 15 marzo 2010

Capitolo 4°



La mattina seguente mi svegliai, dissi le orazioni del mattino, andai a fare colazione eccetera, eccetera. La giornata proseguì fino a sera con una tipica giornata da prete ma c’era qualcosa che continuava a tormentarmi fin dal mattino e appena mi svegliai il giorno dopo capii cos’era: dovevo partire, andare in una di quelle missioni. Telefonai al vescovo il quale, richiamandomi quasi dopo due giorni mi rispose che tra l’OMG e la chiesa non vi era alcun legame (il che è vero) e che se avessi voluto fare il missionario avrei dovuto semplicemente fare richiesta, la quale sarebbe stata sicuramente accolta. Ma io insistetti sul fatto che non volevo andare una qualsiasi missione ma proprio in una dell’organizzazione della quale mi ero innamorato. Probabilmente vi chiederete quale sia la differenza fra una dell’OMG da una classica della chiesa cattolica: beh la risposta è semplice, arrivare in una missione già “imbastita” con una comunità istruita al culto di Cristo e semplice, io invece volevo partire dal nulla o almeno da un qualcosa che non rappresentasse la chiesa come elemento conciliatore sotto un'unica veste, ma al contrario presentarmi come un uomo umile verso il prossimo e non essere privilegiato come sacerdote. Un altro fatto non meno rilevante è la presenza di giovani. A me piace stare a contatto con gruppi di giovani, che hanno un minimo di buon senso, che fanno qualcosa per aiutare la comunità e rendere più bello il mondo, anche nel loro piccolo; al contrario di altri cui interessa solo apparire. Era per questo che volevo andarmene da li portando del bene ad altri meno fortunati stando però vicino a giovani di buona volontà. Così decisi di partire.

domenica 14 marzo 2010

Capitolo 5°



Come avevo precisato prima non era intenzione del vescovo darmi il permesso per intraprendere un viaggio a tempo indeterminato ma non gli diedi tregua finché me lo concesse. E fu così che partii. All’interno del villaggio vi è una chiesa, non aspettatevi una cattedrale con giganteschi portoni e mattoni da metro ma, al contrario, una capanna, niente di più rispetto ad una qualsiasi casetta del villaggio, semplicemente un crocifisso la contraddistingue.
Il villaggio è un agglomerato di casette con al centro la chiesetta, tutto attorno vi sono campi, ovviamente nemmeno paragonabili agli immensi appezzamenti di terra della Pianura Padana: si tratta di tanti piccoli campi dove la coltura è divisa ma l’intero raccolto viene distribuito equamente a tutti gli abitanti del villaggio; uno splendido esempio di solidarietà, altro che nelle città dove si è sospettosi del proprio vicino, dove si chiudono tapparelle, saracinesche affinché lo sguardo “furtivo” del vicino non penetri nelle nostre abitazioni e veda che stiamo leggendo il giornale. Oltre questi campi… montagne, montagne all’infinito; un continuo su e giù guida l’occhio lungo le infinite cime delle Ande coccolando l’animo con tutte quelle sfumature di blu, azzurro, verde acqua, che divengono lentamente giallastre, arancioni e poi rosse per farti vivere ogni sera come se fosse la prima creata dopo i sette giorni. L’aria umida in concomitanza con l’alta quota e la conseguente scarsità d’ossigeno attenua la percezione della cose dopo un duro giorno passato a dissodare la terra e, per un inesperto come me, continuare diventa sempre più difficile ma, vedendo gli abitanti proseguire imperterriti nel loro compito, mi fa sentire veramente estraneo in una regione dispersa e lontana dal mondo: sia nelle cose positive che in quelle negative.

sabato 13 marzo 2010

Capitolo 6°


La mia giornata era organizzata in modo molto ben strutturato e ad ogni momento era associata un’attività che dovevo svolgere in aiuto a qualcuno. La mia vita lì mi piaceva perché sapevo sempre cosa fare, non  mi annoiavo mai e alla mia ordinaria attività di prete si aggiungeva (la più bella) quella di aiutante per delle persone meno fortunate. La preghiera mi accompagnava e scandiva i miei attimi più intimi in cui riuscivo a trovare il contatto con il mio Dio che mi aveva portato alla vocazione. Il silenzio non era quello della mia canonica: le voci di tanti, tantissimi bambini si udivano da ogni parte; mi piaceva, però, perché tutto quel rumore non lasciava spazio al silenzio che in un posto come quello poteva essere collegato solo al dolore, tanto dolore con cui tutti si dovevano confrontare: la fame e le malattie erano all’ordine del giorno. Quello che in assoluto amavo di più erano i bambini, forse perché la mia vocazione di prete mi aveva privato della mia paternità personale ma me ne aveva creata una di collettiva che mi faceva sentire il padre di tutti; i bambini, appunto, mi venivano a svegliare il mattino per la colazione, a mezzogiorno per il pranzo e la sera per la cena. Sapevano benissimo che tutto ciò di cui potevano disporre in quel momento era offerto dalla nostra organizzazione e compensavano tutta la nostra fatica con de sorrisi e dei grandissimi grazie che ogni giorno colmavano il cuore a me e a tutti gli altri ragazzi del gruppo. Ci eravamo affezionati a loro e io, unica figura religiosa del gruppo, li guidavo piano piano verso la dottrina cristiana che, anche una volta finita la nostra missione lì, avrebbero sicuramente continuato a professare. La soddisfazione che quel periodo mi stava procurando era unica e mi rendevo conto che, se fossi rimasto in parrocchia, non avrei mai potuto provare delle sensazioni simili; la vita era diventata monotona dove stavo fino a cinque mesi prima: la messa, i matrimoni, i funerali, i battesimi, le cresime…l’unico momento in cui riuscivo a ritrovare me stesso e a sentirmi veramente utile era quando mi recavo in visita agli ammalati i quali, dalla vista annebbiata del prete del loro paese, accennavano un sorriso e pregavano con me prima di ricevere la comunione che molto spesso portavo nelle case e in ospedale. I ragazzi della comunità non erano più motivati come una volta: nonostante facessi di tutto per coinvolgerli con le più svariate attività, loro si ritrovavano alla di fuori della casa parrocchiale dove, per anni avevano trascorso i loro pomeriggi liberi. Ero deluso dei giovani che avevano abbandonato completamente i posti dove i loro genitori erano cresciuti, rifiutavano le mie celebrazioni e non mi riconoscevano più come la figura che univa il paese; solo i più anziani del paese venivano ancora a messa e qualche famiglia che, avendo i figli in età di prima comunione o di cresima, partecipavano giusto per quel momento.

venerdì 12 marzo 2010

Capitolo 7°



Dormivo in quella branda ormai da quasi sei mesi e, bene o male, le cose procedevano ad un ritmo costante. Il servizio reso a quella comunità mi rendeva soddisfatto sempre di più. Sapevo che tra qualche giorno sarei partito quindi, a malincuore, cominciai a passeggiare avanti e indietro per quella mia stanza e, alzando lo sguardo di tanto in tanto, osservavo le pareti nude. Ero inoltre a conoscenza che quel periodo trascorso in questo angolo incontaminato di mondo non era stato inutile: era stato un fatto che aveva in qualche modo scosso quella comunità e, seppure per un breve periodo, l’aiuto da me portato sarebbe stato molto utile. Stavo camminando e improvvisamente piombò nella stanza un bambino di circa 8 anni, o almeno credo, con l’intento di consegnarmi una lettera arrivata dalla città più vicina un paio di giorni prima ma, avvicinatosi a me, vide il mio sguardo triste e me ne chiese la ragione.
-Tra qualche giorno partirò- spiegai
Il bimbo stette immobile davanti a me per parecchi secondi e, una volta consegnatami la lettera in mano, mi strinse a sé dicendo: -non voglio che vai via- mi lasciò secco; nessuno aveva mai dimostrato tanto affetto nei miei confronti.
Capii in quell’istante che il mio posto era lì, in mezzo ai bisognosi, e non nelle comodità e nel lusso fra cui vivevo prima: dovevo rimanere.
Sono passati ormai tre anni da quando sono venuto qui in Bolivia e più il tempo passa, più cresce in me la ragione che una scelta più giusta non avrei mai potuto farla.

domenica 7 marzo 2010

Nuove notizie



Abbiamo delle nuove informazioni per voi! Punto primo, tra i vari "per fortuna", la pubblicazione del terzo racconto è slittata a lunedì 15 marzo. Punto secondo, entro giovedì 11, verrà pubblicato nel nostro blog il progetto della costruzione di un bar a Londra, lavoro datoci in consegna dal nostro professore d'inglese. Ovviamente tutto sarà scritto in inglese e stiamo decidendo se creare una pagina apposta o pubblicare il progetto direttamente nel blog. Quindi vi diamo appuntamento qui esattamente tra pochi giorni. Alla prossima!

domenica 28 febbraio 2010

3° racconto in arrivo!


Stiamo lavorando al terzo racconto del nostro progetto, il quale parlerà di un fatto che sconvolge una piccola comunità. Dopo molte indecisioni e molti dubbi a riguardo dell'ambientazione e dello sviluppo del racconto, ne siamo (finalmente) giunti alla fase finale. Lo pubblicheremo a breve (entro l'8 marzo), quindi restate aggiornati e a presto!

venerdì 5 febbraio 2010

- Quel maledetto voto -



Capitolo 1

Il professore entrò in aula.
L’intera classe si alzò accennando un saluto mentre il professore, senza nemmeno ricambiare, si sedette stravaccandosi nella poltroncina per gli insegnanti e stette alcuni secondi impassibile.
Poi ad un tratto esclamò: -Un disastro i vostri compiti!- Riferendosi alle verifiche della settimana precedente.
-Dovreste vergognarvi, se io alla vostra età avessi portato a casa dei voti simili non oso pensare cosa mi sarebbe capitato!-
Dopo questa prefazione si raddrizzò sulla sedia, aprì la sua valigetta di pelle nera ed estrasse un plico di fogli rilegati con una fascia di cartoncino con impresso la stemma della scuola.
Guardando uno dei ragazzi in primo banco ordinò: -Vezzali, distribuisci questi orrori che io non voglio nemmeno vederli!-
L’alunno si alzò, prese le verifiche dalla mano sinistra del professore e cominciò a distribuirle.
Baroccolo, Ceralda, Farotto, finchè giunse la sua; osservò con ansia la parte alta a destra del foglio e vide un segno rosso di penna stilografica, una penna antica in cui scorreva un rosso acceso, come lo stupore che provocò al giovanotto quando lesse: 3- .
Quella cifra bloccò la salivazione del giovane che rimase basito e più fissava il voto, più gli si allappava la lingua e la respirazione diveniva faticosa.
Bisogna dire che Vezzali non era un secchione e nemmeno una nullità in ambito scolastico ma proprio quel giudizio era totalmente non condiviso dal ragazzo; non perché avesse paura di una qualche reazione dei genitori, del professore o chissà che, ma perché era consapevole che tale verifica sarebbe stata molto importante e avrebbe influito notevolmente sul voto finale e proprio per questo aveva studiato fino all’esaurimento quella materia trascurando, purtroppo, le altre.
Era sicuro anzi, sicurissimo che sarebbe andata splendidamente, tanto da beffeggiarsene della facilità della stessa verifica nel momento in cui venne consegnata.


Capitolo 2

Vezzali smise di consegnare e rimase immobile mentre il resto della classe lo sollecitava a distribuire i compiti rimanenti ma lui era lì fermo e impassibile.
Mille pensieri gli passarono per la testa in quell’istante che sarebbe impossibile menzionarli tutti.
Poi continuò la consegna; appena ebbe finito tornò al suo posto, dove aveva lasciato la sua verifica, sedendosi la prese fra le mani stropicciandola ai lati e intanto rileggeva infinite volte quella cifra araba scritta in rosso.
Risvegliatosi da quella specie di trans guardò gli errori che il professore aveva corretto e li rilesse tutti alcune volte poi prese il libro di testo e si mise a controllare.
Ogni pagina che sfogliava era una sofferenza, ogni suo dubbio si accertava e infine concluse: il professore ha torto!
Il testo del libro era dalla sua e ogni errore commesso era assolutamente contestabile.
Fu così che prese coraggio, si alzò dal banco e si diresse verso la cattedra dove stava il professore adagiato sulla poltroncina come se fosse al cinema.
-Professore-
-Sì?-
-Avrei un dubbio riguardo la verifica…-
-Ebbene?-


Capitolo 3

- Nella domanda 9 lei chiede quale sia la capitale amministrativa della Repubblica Sudafricana, no? Ecco io ho scritto Pretoria e lei me lo ha contato come errore ma nel libro è scritto così.-
- Mi faccia vedere -
Il professore prese il foglio, lo controllò con più attenzione e si accorse dell’errore commesso;
- Tanto non cambia nulla – disse. E cancellò il voto per mettere un altrettanto orrido 4½.
- E poi, – Vezzali si riprese il foglio per accertarsene - ho notato che nell’esercizio di completamento sulla politica del Congo e della Nigeria lei mi ha tolto 20 punti su 25 anche se alcune cose che ho scritto risultano vere nel libro -
Il professore, evidentemente stizzito, si rimise gli occhiali e ricontrollò l’esercizio con più attenzione e dopo qualche minuto si rivolse di nuovo a Vezzali con un’espressione sorpresa.
- Certo- disse – ma queste mie sviste non ti toglieranno di certo dai guai dato che hai esattamente un 5, un 6,½ e un 5,½. Questa verifica è sempre e comunque insufficiente anche correggendo i miei errori di distrazione. – Cancellò di nuovo il voto per scrivere un immeritevole 5,½. Vezzali torno al suo posto un po’ crucciato ma deciso a non darla vinta al professore. Ricontrollò la verifica per la terza volta e si accorse di un nuovo errore commesso dall’insegnante.
- Professore? -
- Cosa c’è ancora? -
- Ho notato che nel primo e nel secondo esercizio, quello sulle date, io avevo scritto giusto solo che lei le ha segnate quasi tutte come errori.-
Il professore, dalla espressione alquanto irritata, riprese in mano la verifica.
- Lei qui mi mette che l’indipendenza della Somalia è avvenuta nel 1960, un errore grave dato che l’abbiamo studiata quasi per due settimane -
- Ma professore, guardi che è giusto 1960, è lei che ha sbagliato -
- Ma come si permette! Lei sta insinuando che io non faccio bene il mio lavoro? Se ne vada al suo posto e invece di protestare ripensi agli errori che ha commesso e cerchi di studiare di più la prossima verifica. -

Capitolo 4

Vezzali tornò al posto amareggiato poiché non era riuscito a farsi valere con il professore. Era evidente che le correzioni apportate nel suo compito erano errate: il libro era dalla parte del ragazzo. L'insegnante non aveva ammesso di aver sbagliato ed era riuscito, come ben sapeva fare, a mandare al posto il povero ragazzo con un discorsetto che l'aveva fatto svergognare davanti a tutta la classe che, ad un certo punto, si mise addirittura a ridere. Si sedette nella sua sedia, in fondo alla classe a sinistra, ripose con disprezzo la verifica nel banco e si mise a borbottare con il compagno che, come lui, aveva ricevuto un brutto voto ma che non aveva avuto il coraggio di contestare. Ad un certo punto, Vezzali uscì con una frase che lasciò a bocca aperta tutti: -Non esiste la democrazia! I professori hanno sempre ragione!- Immediatamente l'insegnante, adirato da quelle parole, si alzò e con tono intimidatorio disse: -Vezzali, il tuo libretto sulla cattedra! - Il ragazzo senza protestare lanciò il suo libretto personale proprio di fronte allo sguardo del professore che non azzardò a scrivere nulla. -Voi volete sempre avere sempre ragione e questo non è giusto!- Ripeté il ragazzo. L'insegnante rimase immobile a tutte quelle accuse, come fosse impotente. La campanella interruppe quel silenzio irreale e lasciò tutto senza normale, senza nessuna differenza: Vezzali con il suo 5 ½ e l'insegnante con le sue accuse. Tornato a casa, il ragazzo salì in camera sua e continuò a rimunginare su quel voto che non gli avrebbe permesso di trascorrere decentemente le vacanze estive. Arrivò il giorno della consegna delle pagelle e Vezzali, preoccupato, tornò a scuola per verificare il voto in geografia. Si avvicinò titubante alla vetrina con appiccicate in essa tutte le pagelle e il suo occhiò salto subito alla sua. Italiano, matematica, biologia, geografia… voto 6. L’insegnante aveva capito e gli aveva alzato il voto! Vezzali tornò a casa saltellando e raccontò tutto ai suoi genitori. Adesso poteva trascorrere le vacanze senza preoccupazioni di vario genere!

Alessia Zaroccolo
Marco Gasparotto
Alessandro Bregalda