lunedì 7 giugno 2010

- Per un amico -



Capitolo 1

Eravamo partiti in 22 e tornavamo in 8 da quella stramaledettissima missione e da quella fottuta trincea del cavolo che puzzava di qualcosa che si avvicinava molto all’odore di carne umana: non ci lavavamo da giorni. Posammo lo zaino e il thomson a terra, stremati. Chiesi dell’acqua e lavandomi il viso e sorseggiando il resto della borraccia mi guardai intorno, “John… John…” alcuni mi guardarono per un momento poi si voltarono dall’altra parte; solo Anthony che era seduto affianco a me mi fissava e appena incrociai il suo sguardo lui scosse il capo a destra e a sinistra. Non ci credetti subito, mi alzai in piedi e urlai più forte -John- ma ancora nessuna risposta. Sensazioni atroci mi passavano per la mente, orrori nella mia testa, avevo un’accurata percezione della realtà ma la mai mente rifiutava l’idea che John fosse scomparso. Ero ormai troppo abituato alla sua presenza, ero cresciuto insieme a lui: da bambino non uscivo di casa senza di lui, era la mia ombra. Le nostre famiglie si conoscevano da anni e durante l’estate ero sempre a casa sua a pranzo: sua madre era un’ottima cuoca e amava preparaci dei deliziosi pranzetti che insieme gustavamo in terrazzo. In segno della nostra grandissima amicizia ci eravamo regalati un braccialetto colorato che, con il tempo, si era consumato ma tenevo sempre con orgoglio al braccio sinistro insieme a quello d’oro del Battesimo. Un legame profondo fatto di sincerità e di affetto, nato moltissimi anni prima e che ancora durava nonostante fossimo diventati degli uomini e, una nuova tappa della nostra amicizia, fu appunto quella della guerra, un’esperienza difficile al termine della quale saremmo diventati ancora più forti e ciò che era ancora più splendido era che questa crescita sarebbe avvenuta sempre insieme. Davanti a migliaia di ragazzi che partivano tra le lacrime, noi eravamo partiti con il sorriso sulle labbra, ci sentivamo grandi, avevamo voglia di nuove avventure, il dolore non ci faceva paura perché eravamo insieme. Lo cercai nervosamente tra i pochissimi rimasti ma, dopo alcuni minuti, mi accorsi con grandissimo dispiacere che non era presente; fu proprio in quel momento che il mio cuore si frantumò in mille pezzi, come un piatto di porcellana che raggiunge il suolo, non riuscivo ad immaginare che John potesse essere morto e non potevo nemmeno accettare di averlo abbandonato nel campo di battaglia.

Capitolo 2

Abbandonai di colpo lo zaino e il thomson e corsi alla ricerca del capitano per dirgli che avevamo perso John; lo dovetti cercare a lungo prima di trovarlo, sembrava essersi volatilizzato. Quando lo trovai gli corsi davanti e mi fermai a dieci centimetri da lui. Seguì qualche secondo di silenzio mentre ci respiravamo in faccia lui mi squadrò da cima a fondo; il silenzio si ruppe quando si chinò per prendere la borraccia: credevo volesse fare qualcosa, ogni suo gesto mi appariva decisivo per quello che volevo fare, per il permesso che volevo ottenere da lui. -Capitano- dissi a gran voce -John non è con noi- lui non mi rispose, soltanto mi fissò negli occhi per alcuni istanti poi riabbassò lo sguardo. Io gli diedi una spinta sulla spalla e gli richiesi: -Eh beh che vuole fare?- replicò lui. -E che cosa vuoi che faccia? Non possiamo tornare indietro a riprendere chiunque si perda…- .
Me ne tornai a sedere. Stetti lì fermo come un cane impaurito seduto sul fango e qualcosa mi si muoveva dentro. Mi sentivo in dovere verso John, non potevo non andare a cercarlo, dovevo rendergli giudizio, se era morto aveva diritto a una sepoltura degna, un luogo un cui fosse stato possibile pregare per lui e riporre dei fiori. La sua famiglia aveva già perso l’altro figlio, era morto a soli dieci anni per una malattia rara che i medici avevano dato per incurabile; la madre e il padre di John andavano al cimitero tutti i giorni, tutte le mattine, come in un pellegrinaggio, partivano a piedi per andare al camposanto che si trovava sulla sommità di una collina: poche tombe, i pochi fiori erano tutti appassiti, secchi e venivano sostituiti sono in prossimità delle grandi feste giusto per fare bella figura con i parenti che sarebbero venuti da lontano. L’unica tomba che aveva sempre, inverno e estate, i fiori sempre freschi era quella di Peter, con quella foto in bianco e nero di un angelo scomparso ancora prima di prendere il volo; John, prima di partire per la guerra, accompagnava sempre i suoi genitori a far visita a suo fratello e, anche lui ancora sconvolto dal dolore come i genitori, aveva dichiarato di voler riposare vicino a suo fratello quando sarebbe arrivata la sua ora perché, così diceva, quel rapporto aveva bisogno di continuare per l’eternità.

Capitolo 3

A un certo punto ripresi coraggio, mi rialzai e tornai dal comandante; mi misi sull’attenti di fronte a lui e gridai: “Chiedo il permesso di andare a recuperare il soldato John Marquand”. “Permesso negato” replicò il comandante.
Avevo cercato in tutti i modi di convincere il comandante, gli avevo raccontato delle promesse che prima di partire io e il mio amico ci eravamo fatti, avevo anche cercato di far capire a quel cuore di ghiaccio quale fosse il rapporto tra me e John, dell'infanzia trascorsa insieme e anche della sua situazione famigliare. Il comandante mi ascoltava, stava fermo come un palo della luce che rimane indifferente al sole, alla pioggia, alla neve e al vento; quell'uomo sembrava davvero non voler capire le mie ragioni e, quasi per farmi notare la sua assoluta superiorità alla fine di tutti i miei discorsi mi rispose con un “NO” secco che però non mi fece cadere nello sconforto e nemmeno fece svanire tutta la forze che sentivo dentro che mi guidava verso John.

Capitolo 4

John disobbedisce al comandante e parte per andare a riprendere il suo amico.
E fu dal No del comandante che decisi di partire, alla ricerca del mio grande amico John. Non sapevo dove l'avrei trovato, non ne avevo la più pallida idea, non mi ero nemmeno accorto quando era stato colpito e aveva smesso di seguirci. Mi misi il fucile in spalla come anche quel vecchio zaino con dentro quel poco cibo che mi era rimasto: ero stanco, sfinito, gli occhi mi bruciavano e l'unica cosa che mi avrebbe risollevato sarebbe stata ritrovare John vivo. Camminai a lungo, ripercorsi gli stessi luoghi che poco prima mi avevano riportato a casa, mi guardavo intorno ma il mio raggio di veduta era abbastanza corto perché ero davvero stremato. Colline, qualche tratto in pianura, sassi, acqua, avevo freddo e caldo insieme, penso di avere avuto anche la febbre ma niente mi avrebbe potuto fermare. Ero sicuro di trovare John, ero sicuro di poterlo rivedere vivo, di potergli parlare, di poter tornare a casa con lui e di ricominciare una nuova vita dopo quella tremenda e terrificante guerra. Ogni tanto inciampavo e cadevo a terra, le mie ginocchia erano piene di botte viola che si mescolavano alla terra che rimaneva attaccata con il sudore alla mia pelle; in alcuni momenti mi mancava pure il respiro, ero costretto a fermarmi, sedermi a terra per qualche secondo per poter riprendere fiato e continuare a camminare. Tra una caduta e un respiro mancato continuavo incessantemente a gridare il suo nome: JOHN, JOHN, JOHN.... e ogni tanto si produceva pure un eco che moltiplicava all'infinito quel nome. Ad un certo punto vidi un casolare, dietro una collina e, dopo una prima occhiata mi sembrava avere qualcosa di famigliare; camminai ancora u po', incuriosito finché non arrivai a pochi metri da quello luogo abbandonato: era proprio lo stesso posto in cui qualche settimana prima ci eravamo fermati a dormire durante la notte e dove avevamo trovato riparo dagli spari nemici. Entrai stremato e mi sedetti a terra; da dietro un muro sentii una voce che mi chiedeva aiuto. Mi alzai di colpo e riconobbi all'istante quella voce: era John! Lo raggiunsi subito: era ferito, stava male e immediatamente mi resi conto che le sue condizioni erano davvero gravi. Me lo caricai in spalla e riprendemmo insieme la casa del ritorno. John era davvero a pezzi, era stato ferito alla gamba destra e aveva perso molto sangue; aveva fame, sete e, come me, non ne poteva più della guerra. John sapeva che non ce l'avrebbe fatta a sopravvivere ma io, testardo come sempre, ne ero sicuro e lo volevo portare in vita davanti al comandante, come un atleta con il suo trofeo dopo una gara.

Capitolo 5

Cominciavo anch'io a sentire i segni della stanchezza, le gambe facevano veramente fatica a tenermi in piedi ma continuavo a camminare facendo finta di non sentire niente; ad un certo punto arrivò uno sparo, un proiettile si conficcò nel mio braccio sinistro e, di colpo, mi accasciai a terra dal dolore. In quel momento, anche se per poco, pensai che non ce l'avremmo fatta ma, come avevo fatto io prima, John mi diede la forza di continuare; per fermare il sangue mi legò uno straccio molto stretto al braccio. Continuavamo a camminare, non sentivo più le gambe che andavano avanti da solo. Il cielo era grigio e nubi nere si alzavano dalla terra infuocata, fuoco rosso come il sangue che sgorgava dalla gamba di John, ma camminavamo e camminavamo senza fermarci. Ma ad un certo punto, proprio mentre le energie gonfiavano il cuore di fatica ecco la salvezza. Il nostro limite per portarci entrambi in salvo. Mancavano circa 200 metri. Vedemmo qualcuno venirci in contro era dei nostri la divisa era sicuramente la nostra, ma ad un centinaio di metri si fermo e immobile prese la mira. Il primo colpo schivò John di qualche centimetro, tentammo di correre più veloci ma di nuovo per la seconda volta, bam; questo centro John nel petto sulla destra. Mi gettai a terra insieme a lui e urlai: Alzati John, alzati, andiamo manca pochis… Un terzo proiettile mi si conficco nella coscia sinistra e mi strappo dai polmoni il poco fiato che mi rimaneva. Eravamo distesi in posizione prono e girando la testaverso John gli dissi:”il comandante non mi ha concesso il permesso di venirti a salvare, ma io ho disobbedito e sono venuto comunque…” e lui rispose. “il comandante eh? Ecco chi mi ha sparato. Il comandante è un infiltrato.

Il team di "Con un po' d'inchiostro"

Nessun commento:

Posta un commento